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Dal mio punto di vista l’eroismo tragico di Monet è necessariamente destinato al fallimento, ancor più rispetto alla filosofia di Kierkegaard che, in realtà, non può avere un esito (essendo filosofia e ponendosi comunque come una serie di significati e valori che trascendono il singolo individuo come espressione artistica).
Se guardi i dipinti dell’ultimo periodo della vita di Monet, i suoi dipinti diventano quasi un amalgama di colori e tinte, come se il visibile diventasse ormai impossibile da vedere e quindi diventasse una sorta di cecità iper-visiva. Se guardi i suoi ultimi dipinti, non vi è più niente di rappresentabile e si arriva alla pura astrazione; molti hanno visto in Monet quasi una sorta di “padre spirituale” dell’espressionismo astratto di Pollock.
Il pittore nel suo giardino
Guardiamo i dipinti di Monet e del suo giardino, soprattutto la serie delle ninfee, ma forse non sappiamo che quelle ninfee le ha coltivate Monet, che quel giardino (che ancora oggi è stato mantenuto perfettamente) è stato creato dalla maniacalità di Monet. Un equilibrio meraviglioso, fragilissimo, di elementi naturalistici – delicatissimo, di una leggerezza strepitosa. Una selvaggia cura del dettaglio che preserva sia la selvaggia naturalità, la biodiversità, sia il controllo, l’ordine, il posizionamento e la cura. Ecco che proprio su questi elementi possiamo così interrogarci al loro significato.
Certamente c’è una spiegazione meramente pittorica. Anche qui piuttosto geniale dal mio punto di vista, per quanto poco conosciuta se non si approfondisce un momento il significato artistico del giardino. Il giardino diventa una sorta di rappresentazione, di soggetto, totale da parte di Monet. In genere i pittori prediligono tre tipologie di soggetto: il ritratto, il paesaggio e la natura morta. Il giardino di Giverny è tutti e tre, una sorta di “soggetto trinitario”, perché diventa il suo modello preferito. Ma è anche il suo paesaggio, che lui ha costruito, creato e che dipinge proprio come en-plein-air, come i covoni e la cattedrale di Rouen. Ma diventa anche la sua natura morta perché si presta perfettamente a essere rappresentato come tale.
Questo è il significato superficiale dal nostro punto di vista, ma possiamo andare a estrapolare anche altri significati più legati alla nostra crescita personale, più profondi e individuali.
Uno lo abbiamo già messo in evidenza prima: il ritiro. Il giardino di Monet è il suo ritiro dal mondo, il ritrarsi in sé, il pratyaharadel buddismo; nel percorso della liberazione dalle catene del samsara, della vita di sofferenza e dal ciclo di reincarnazioni, lo yogin prima lavora sugli elementi esterni – il corpo, il respiro e il comportamento. Poi a un certo punto c’è un elemento che segna il passaggio verso la spiritualità pura: il pratyahara, il ritrarsi in sé. È esattamente il ritiro di Monet, che si ritira dal mondo, dall’esteriorità, dopo aver ottenuto una stabilità economica. Non ha più bisogno di mostrarsi in pubblico, il suo tempo lo dedica alla ricerca, all’entrare dentro di sé.
Ossessione? Controllo?
Ma il ritiro, che è un elemento molto importante, secondo me non connota definitivamente il senso del giardino di Monet. Vi sono due prospettive più critiche, che sono l’ossessione e il controllo. Abbiamo scritto che senza dubbio Monet è una figura ossessiva, maniacale; l’ossessione della ricerca del dettaglio, del cogliere l’esattezza nuministica, i movimenti della natura impercettibili. Sarà una connotazione anche di altri grandi della pittura successivi o coevi a Monet, come Cezanne; questa ossessione fa parte della stessa natura della pittura dell’epoca.
Però, sta di fatto che anche nella casa, nella costruzione di un giardino così curato e rigoroso, troviamo l’elemento dell’ossessione: Monet si ritira anche perché vuole scegliere questo stile di vita, perché è quasi sociopatico. Si esclude dal mondo perché “odia” il mondo e ossessivamente vuole trovare e trovare il suo mondo; e, magari, averne totale controllo. Quindi anche la sua pittura, che è sempre così ossessivamente centrata sul controllo di ogni pennellata in relazione al movimento della luce, ecco che diventa ossessiva e che nasconde un tentativo di controllare tutto – destinato al fallimento.
Sono diverse prospettive, diversi stimoli, che ci possono anche far vedere come noi stessi nelle nostre piccole o grandi cose, personali o professionali, nel mondo in cui relazioniamo con gli altri, siamo veramente. Il nostro bisogno di esteriorità, per esempio: ce lo può ricordare questa scelta molto coraggiosa e autentica di Monet, di rifiutare il successo esteriore (la popolarità) e di scegliere di investire tutto il suo tempo nella ricerca della verità. Questi sono stimoli che, anche nella prospettiva più deteriore, possono darci un incentivo positivo.
Il vero senso del giardino: la cura
Quello più importante, secondo me, è invece molto positivo, molto proattivo, molto stimolante, riguarda il nostro ruolo di individui in relazione con il nostro mondo e dal nostro mondo con il mondo. Se ci pensi, proprio la cura che Monet dedica ossessivamente al suo giardino, oltre che alla sua pittura, ci mostra proprio questo: il curarsi integralmente del proprio piccolo mondo, di un solo piccolo mondo – dedicarsi a esso completamente di quel piccolo mondo. Monet non si pone l’obiettivo di cambiare il mondo; quando arriva alla sua maturità, non cambia la sua ricerca, non si siede, non entra nella sua comfort zone. Anzi, ne esce, mettendosi continuamente in discussione. Decide di non più uscire all’esterno, quindi avere un’ambizione universalistica, ma si concentra su quel suo piccolo mondo, di cui intende prendersi cura completamente. Non vuole che gli sfugga nulla. Questo prendersi cura di questo piccolo “quadro” di natura all’interno dell’immensa natura del mondo è qualcosa di straordinariamente significativo e motivante dal mio punto di vista. Perché ci mostra quanto questa cura sia l’assunzione di una totale quanto gratuita responsabilità.
Io sono qui a Giverny, creo questo piccolo mondo e me ne prendo cura totalmente. Questo mondo diventa il mio mondo e io sento la responsabilità verso questo mondo e mi dedico totalmente a esso,
Gli Indiani d’America dicevano che dovremmo pensare a ogni nostra azione rispetto alle conseguenze che potrebbe portare sulle sette generazioni successive. Il piccolo mondo di Monet non ci mostra una visione spirituale così culturalmente radicata e condivisa, ma ci mostra qualcosa che si avvicina a questa stessa visione in un modo minimalista, più alla portata di tutti. Pensa se ogni singolo individuo decidesse di occuparsi di un piccolo giardino, reale o metaforico – della sua famiglia, dei suoi dipendenti, della sua azienda, dei suoi figli – e di prendersi cura di quello. Pensa se ognuno di noi si assumesse semplicemente la responsabilità non di cambiare il mondo ma di prendersi cura di ciò che sceglie di voler prendersi cura.
Prova a pensare alla somma dell’azione di ogni singolo individuo sul suo piccolo mondo rispetto a tutto il resto. Perché il prendersi cura implica tutta una serie di azioni, di intenzioni e di pensieri che trascende la massa, i numeri, la quantità, il profitto. Monet non si prende cura del suo giardino per far soldi (anche se ha fatto molti soldi dal suo giardino); ma i valori del prendersi cura escludono quelli che sono gli attuali, ormai deperiti, disvalori di massa (quantitativo). Il dettaglio, la precisione, l’artista. Ognuno diventa un artista, perché naturalmente porta nel suo mondo se stesso.
Questo ci insegna Monet. Di trovare il punto di equilibrio, un punto di equilibrio decisamente sfuggente, ma che si trova.
Dal punto di vista pragmatico, il prendersi cura di un piccolo mondo non è segno di egoismo, di paura, di ossessione o di bisogno di controllo. Può esserlo, ma se lo leggiamo e pratichiamo in questo senso, può essere invece il punto di partenza e il continuo punto di avanzamento per quello che cerchiamo: cambiare il mondo.
(2 - FINE)
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