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Vorrei parlarti del giardino del pittore Claude Monet. Il giardino di Giverny, diventato famoso per i numerosi dipinti che hanno come protagonista il giardino stesso. Cercherò di cogliere da questo giardino i fiori più colorati e più belli per la nostra crescita personale. Ovviamente trascenderemo dal significato storico-pittorico di questo giardino, anche se il giardino ha un significato immenso da questo punto di vista nella storia dell’arte (occupa una notevole parte della vita di Claude Monet e corrisponde al lungo periodo della sua maturità, che va dal momento in cui acquista la tenuta di Giverny fino alla sua morte, più di trent’anni più tardi).
Vedremo brevissimamente cosa significa maturità artistica e la corrispondenza tra la pittura di Monet a partire dal periodo di Giverny e il giardino stesso, semplicemente per anticipare, inquadrare e incorniciare il nostro quadro nella cornice storica.
Successo e ritiro
Monet ottiene il suo primo successo nel 1874 con la celebre prima mostra degli Impressionisti, nella leggendaria galleria del fotografo Nadar. Un suo dipinto del 1872, Impressione: levar del sole, viene stigmatizzato in senso negativo per l’epoca da parte di un critico che attribuisce l’etichetta di “impressionisti” e di “impressionismo” in senso deteriore. Lì però inizia il successo di questa scuola di pittura e il successo di Monet, che fino al 1874 aveva fatto molta fatica a tirare avanti e sopravvivere con decenza. Nel momento in cui comincia ad avere una base economica solida, decide appunto di acquistare la tenuta di Giverny, nel 1890, dove si stabilisce e inizia a creare il suo giardino.
L’acquisto della casa di Giverny e l’inizio del lavoro sul giardino, che diventerà il suo protagonista principale, può segnare effettivamente quello che possiamo chiamare il “ritiro di Monet”, una decisione presa in un momento di grande successo e celebrità a Parigi. Sceglie invece un luogo dove poter raccogliersi completamente in sé e dedicarsi a quella che è l’ossessione della sua pittura, l’essenza della sua ricerca, cioè la relazione tra la luce, i colori e l’occhio. L’impressionismo ha proprio questo punto focale: non ricercare più una rappresentazione oggettiva della natura, ma di ricercare l’effetto che la natura ha su di me, l’impressione nel senso di ciò che resta “impressionato”, “impresso”, nel mio occhio e nella mia esistenza. C’è un dinamismo tra individuo e natura, tra soggetto e oggetto.
Se fai visita alla sua casa-museo di Giverny, ti puoi facilmente rendere conto dell’ossessività di Monet. Basta guardare la sua meravigliosa cucina. La stessa ossessività e maniacalità si riversano sia nella creazione del suo giardino sia nella sua pittura. Il ritiro a Giverny coincide infatti con il momento di maturazione fondamentale e di prolungamento della sua ricerca fino agli ultimi giorni di vita, fino a quando la cecità, paradossalmente, mette completamente in crisi la possibilità di una visione, quasi un contrappasso (come per Beethoven, genio musicale divenuto sordo) per Monet che è uno dei pittori più visividi tutti i tempi, forse anche più di Van Gogh.
La radicalità della ricerca
Ecco la radicalità. Inizia l’ossessività ripetitiva di Monet. Il pittore inizia proprio nel periodo in cui si ritira a Giverny e inizia a creare il giardino, a dipingere sempre gli stessi soggetti. Per esempio la serie dei covoni o, altrettanto famosa, la serie di dipinti che hanno come soggetto la cattedrale di Rouen. Dipinge, dipinge, dipinge sempre lo stesso soggetto. Cercando cosa? Famosa è l’immagine di Monet che ha davanti a sé diversi cavalletti, uno di fianco all’altro, con diverse tele, una di fianco all’altra; e lui, con rapide pennellate, senza neppure più abbozzare alcun tipo di disegno, cerca semplicemente, seguendo dei ritmi esatti temporali di cogliere la sfumatura cangiante della luce e dei colori. Questo è un tentativo radicale, una ricerca ossessiva, naturalmente destinata al fallimento: perché non vi è una ricerca di una misura dello spettro cromatico, una ricerca scientifica della variazione della vibrazione cromatica, ma vi è proprio questa ricerca dell’interazione e della variazione dello stato d0’animo, rispetto al momento stesso in cui variano luce e colore. Questo è continuamente sfuggente. Tutto continuamente cambia, e nel momento stesso in cui cerchi di fermare quell’istante, esso è già passato.
Questo, filosoficamente, non nega il ritocco successivo, il significato straordinario del tentativo “disperato ma eroico” di Monet di rappresentare l’irrappresentabile. Filosoficamente, però, ne fa un pittore kierkegaardiano, perché tratta del ruolo dell’individuo nel mondo. Søren Kierkegaard è stato il filosofo che ha messo in crisi l’idealismo, l’oggettivismo; l’idealismo hegeliano non era altro che un oggettivismo puro (“tutta la natura non è altro che un processo dello Spirito”). Kierkegaard pensava che questo faccia crollare il significato di ogni individuo e vedeva nell’idealismo tedesco l’origine e la radice di quello che sarà il devastante uso dell’oggettività nel Novecento (l’uomo di massa, il numero). Kierkegaard dice che l’individuo c’è, è proprio lui che mette in crisi completamente l’assoluto, perché l’individuo è temporale, ma si relaziona con l’assoluto; è finito ma si relaziona con l’infinito; non riesce ad andare oltre la sua esperienza, ma può immaginare che la sua esperienza diventi qualcosa che cambia completamente l’esperienza umana. Ed è la stessa cosa che avviene con Monet, con cui Kierkegaard condivide anche il periodo storico e il suo terreno culturale. Monet è l’irriducibilità di ogni singolo e di ogni singolo rappresentazione rispetto al tentativo di assolutizzarla. Io cerco di rappresentare quel perfetto istante, o che io immagino come tale, o quel momento invece in cui l’istante si relazione con il mio stato d’animo di quel momento, e cerco di tirare fuori qualcosa che mi dia un senso. E questo senso manifesta proprio questa straordinaria dialettica tra finito e infinito, tra uomo e Dio, essenzialmente.
(1- Continua)
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